Leopardi : Pères et patriarches

DOI : 10.58335/filiations.80

Le transfert des conflits entre père et enfant de l’espace biographique à l’espace littéraire a le caractère de la nécessité dans le cas de Giacomo et Monaldo Leopardi.

Le Père est un grand miroir sans lequel Giacomo ne pourrait rien savoir de sa propre force, ni même de sa propre existence ; il est aussi une menace mortelle pour cette force et pour cette existence qu’il veut entièrement soumises à son autorité.

Ainsi, tout en travaillant à se soustraire par la littérature à l’emprise du pouvoir paternel, Leopardi cherche et fabrique sans cesse dans la littérature les signes de ce pouvoir.

L’Autre prend dans son imaginaire la forme équivoque de l’Origine, et aucun paradis exotique n’est jamais rêvé par Giacomo en dehors de la géographie paternelle de l’Antique. L’écriture se veut une entreprise au service de la Patrie, le pays du père, et le respect ostentatoire des formes de la tradition littéraire est le revers d’une insoumission et d’un désir d’orginalité absolus. Montrant souvent de l’affection et de la désaffection pour les mêmes auteurs, Leopardi révèle l’instabilité de sa posture, prise entre les désirs opposés d’identification et d’individuation. Mais l’image souveraine d’Homère semble, seule, résister à ces oscillations : Giacomo a fini par croire moins à l’imagination, par embrasser la mélancolie comme sentiment adulte et moderne, mais Homère continue de l’accompagner vers la poésie.

Homère le patriarche, père et prince de la poésie, le premier et le plus grand de tous, donne corps à un fantasme archaïque, où la langue est encore à trouver et l’enfant peut s’identifier au Père, se voir grandi en lui et par lui.

La proiezione del conflitto tra padre e figlio dal piano biografico a quello letterario prende il carattere della necessità nel caso di Giacomo e Monaldo Leopardi. Il Padre è un grande specchio senza il quale Giacomo non saprebbe nulla della propria forza e neppure della propria esistenza ; ma è anche una minaccia mortale per questa forza ed esistenza, che vuole sottomettere interamente alla sua autorità. Così, mentre cerca di sottrarsi attraverso la letteratura alla presa del potere paterno, Leopardi fabbrica incessantemente nella letteratura i segni di questo potere. L’Altro prende nel suo immaginario la forma equivoca dell’Origine, e nessun paradiso esotico è sognato da Giacomo al di fuori della geografia paterna dell’Antico. La scrittura è concepita come un’impresa al servizio della Patria – il paese paterno – e il rispetto ostentato delle forme della tradizione letteraria è il rovescio di una rivolta e di un desiderio di originalità assoluti. Mostrando spesso affezione e disaffezione per gli stessi autori, Leopardi rivela l’instabilità della sua posizione, stretta fra i desideri opposti di identificazione e di individuazione. Ma l’immagine sovrana di Omero sembra, essa sola, resistere a queste oscillazioni : Giacomo ha finito per credere meno all’immaginazione, per abbracciare la malinconia come sentimento adulto e moderno, ma Omero continua ad accompagnarlo verso la poesia. Omero il patriarca, padre e principe della poesia, il primo e il più grande di tutti, dà corpo a un fantasma arcaico, in cui la lingua resta da trovare e il bambino può identificarsi col Padre, vedersi crescere in lui e attraverso lui.

In the case of Monaldo and Giacomo Leopardi the conflict between father and son takes easily a literary form. Monaldo is a vital support for his son’s identity, but at the same time he is a deadly threat for him. So, literature is to Giacomo a way to escape the Father, that constantly brings him back to Him. In Giacomo’s imagination the Other has always the appearance of Antiquity ; poetry is first a way to serve the Fatherland, and a powerful aspiration to originality is concealed behind an ostentatious respect for literary conventions. By changing often his judgment on the same writers, Leopardi reveals the instability of his position ; only Homer, the most ancient and the first of all poets, seems able to embody an archaic image of the Father to which the son can identify himself.

Plan

Texte

1. LE NOM DU PÈRE

1.1 Patria potestas

« Plus vous vous hâterez de traiter votre fils en homme, et plus tôt il commencera à le devenir » affirme John Locke dans le chapitre de Some thoughts concerning education (1693) qui traite de la familiarité des parents avec leurs enfants (Locke 1992 : 129). Leopardi, qui lisait ce livre en 1825,1 aura pu se souvenir avec tristesse de la lettre écrite quelques années auparavant (5 décembre 1817) à Pietro Giordani, dans laquelle il se plaignait d’être traité par ses proches comme un enfant, et d’être ignoré de tous au point que son nom pouvait être pris pour celui de son grand-père défunt :

Alla fine io sono un fanciullo, non dico in casa, dove mi trattano da bambino, ma fuori, chiunque ha qualche notizia della mia famiglia, ricevendo una mia lettera, e vedendo questo nuovo Giacomo, se pure non mi piglia per l’anima di mio Nonno morto 35 anni fa, che portò questo nome, s’appone che io sia uno de’ fantocci di casa, e considera che rispondendo egli uomo fatto (fosse ancora un castaldo) a me ragazzo, mi fa un favore, e però con due righe mi spaccia, delle quali l’una contiene i saluti per mio padre. (Leopardi 1998 : 165)

Le conflit entre l’identité filiale et l’autorité paternelle, projeté dans cette lettre sur l’ensemble des relations sociales de Giacomo à Recanati, viendra plus tard au premier plan, en prenant ses proportions définitives dans le deuxième des Pensieri, dont la position stratégique (juste après la pensée d’ouverture qui sert de préambule) souligne l’importance :

Scorri le vite degli uomini illustri, e se guarderai a quelli che sono tali, non per iscrivere, ma per fare, troverai a gran fatica pochissimi veramente grandi, ai quali non sia mancato il padre nella prima età. Lascio stare che, parlando di quelli che vivono di entrata, colui che ha il padre vivo, comunemente è un uomo senza facoltà ; e per conseguenza non può nulla nel mondo : tanto più che nel tempo stesso è facoltoso in aspettativa, onde non si dà pensiero di procacciarsi roba coll’opera propria ; il che potrebbe essere occasione a grandi fatti ; caso non ordinario però, poichè generalmente quelli che hanno fatto cose grandi, sono stati o copiosi o certo abbastanza forniti de’ beni della fortuna insino dal principio. Ma lasciando tutto questo, la potestà paterna appresso tutte le nazioni che hanno leggi, porta seco una specie di schiavitù de’ figliuoli ; che, per essere domestica, è più stringente e più sensibile della civile ; e che, comunque possa essere temperata o dalle leggi stesse, o dai costumi pubblici, o dalle qualità particolari delle persone, un effetto dannosissimo non manca mai di produrre : e questo è un sentimento che l’uomo, finchè ha il padre vivo, porta perpetuamente nell’animo ; confermatogli dall’opinione che visibilmente ed inevitabilmente ha di lui la moltitudine. Dico un sentimento di soggezione e di dipendenza, e di non essere libero signore di se medesimo, anzi di non essere, per dir così, una persona intera, ma una parte e un membro solamente, e di appartenere il suo nome ad altrui più che a se. Il qual sentimento, più profondo in coloro che sarebbero più atti alle cose, perchè avendo lo spirito più svegliato, sono più capaci di sentire, e più oculati ad accorgersi della verità della propria condizione, è quasi impossibile che vada insieme, non dirò col fare, ma col disegnare checchessia di grande. E passata in tal modo la gioventù, l’uomo che in età di quaranta o di cinquant’anni sente per la prima volta di essere nella postestà propria, è soverchio il dire che non prova stimolo, e che, se ne provasse, non avrebbe più impeto nè forze nè tempo sufficienti ad azioni grandi. Così anche in questa parte si verifica che nessun bene si può avere al mondo, che non sia accompagnato da mali della stessa misura : poichè l’utilità inestimabile del trovarsi innanzi nella giovanezza una guida esperta ed amorosa, quale non può essere alcuno così come il proprio padre, è compensata da una sorte di nullità e della giovanezza e generalmente della vita. (Leopardi 1997 : 628)

La conclusion qui distille à la fois le miel et le venin de la dépendance filiale n’est ni la moins pénétrante ni la moins personnelle des facettes de cette méditation.2

Le corps de celle-ci parle, il est vrai, un langage où résonne une tradition politique et juridique : la patria potestas qui confère au chef de famille un pouvoir de vie et de mort sur ses enfants, qui diminue l’existence des uns pendant toute la durée de l’existence de l’autre, est bien un principe du droit romain, repris par les théoriciens de la monarchie absolue pour asseoir le pouvoir du roi sur celui du père, et contesté d’abord par des penseurs libéraux comme Locke, avant d’être investi par la charge de la Révolution (cf. Paraiso 2005).

Mais d’où viendrait cette ombre archaïque – la patria potestas - qui s’étend dans la pensée de Leopardi de la sphère juridique à l’analyse psychologique, si ce n’est de sa propre confrontation à un Père surpuissant, vécu à la fois comme littéralement vital et littéralement meurtrier ? Il n’est pas superflu de rappeler que son père Monaldo, pour qui la pensée révolutionnaire n’était rien de moins que diabolique, tenait pour une vérité établie que le pouvoir paternel, fondement de toutes les formes de l’autorité, est à l’image du pouvoir de Dieu.3

1.2 Le pouvoir du nom

Il n’est pas anodin non plus que le conflit avec l’autorité paternelle qui se profile dans la conscience de Giacomo ait les contours d’une querelle pour le nom. Que son nom ne lui appartienne pas, que son nom soit celui de son père, voilà un symbole auquel Giacomo semble attacher une importance singulière, que ce soit dans la lettre à Giordani ou dans la réflexion des Pensieri sur l’empêchement à être qu’est la dépendance filiale, où la dépossession du nom équivaut à la dépossession du corps. Une autre lettre plus tardive (à Giuseppe Melchiorri, du 15 mai 1832) vient d’ailleurs faire écho à celle adressée à Giordani, où la question de la propriété du nom prend une tournure paradoxale : les rapports de force entre les noms du père et du fils y semblent renversés, pourtant le fils est toujours là, à mordre la poussière soulevée par son père. Monaldo vient de publier ses Dialoghetti, satires réactionnaires dont le ton ne rappelle pas par hasard quelques-unes des Operette morali et surtout des « prosette satiriche » de Giacomo. Or c’est justement à celui-ci que la rumeur publique les attribue, Monaldo étant bien moins connu :

Non voglio più comparire con questa macchia sul viso, d’aver fatto quell’infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Qui tutti lo credono mio : perché Leopardi n’è l’autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l’autore son io. Fino il governo mi è divenuto poco amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci. A Roma io non poteva più nominarmi o essere nominato in nessun luogo, che non sentissi dire : ah, l’autore dei dialoghetti. (Leopardi 1998 : 1907)

Il est probable que la colère et le désarroi que Giacomo confesse à son cousin soient moins dus à la peur d’être pris pour un réactionnaire qu’à l’angoisse d’être pris encore et toujours pour son père. Le sortilège qui semble anéantir ses tentatives d’exister est d’autant plus pervers qu’il démolit précisément la construction à laquelle Giacomo a confié tous ses espoirs d’être par la vertu d’un nom : la réputation littéraire. La magie de la gloire littéraire consiste en effet à faire être celui qui est simplement nommé : « noi crediamo di essere abbastanza informati intorno ad uno scrittore, quando ne sappiamo il nome » (Leopardi 1997 : 394), écrit Leopardi à dix-sept ans dans le Discorso sopra la Batracomiomachia (1815). Il s’est mis très tôt à rêver d’atteindre l’être par cette voie d’illusion, mais le nom littéraire qui devrait lui donner la vie, peut-il vraiment ne plus être celui de son père ?

1.3 Le double père

Le transfert des conflits entre père et enfant de l’espace biographique à l’espace littéraire n’est pas en soi un phénomène surprenant, mais dans le cas de Giacomo et Monaldo il a quelque chose de lourd, d’inexorable. En effet, Monaldo n’a pas seulement été le souverain absolu de l’enfance de Giacomo (rôle que contribuait à lui façonner la distance sidérale de la mère, la glaciale Adelaide) : il a été plus particulièrement le planificateur et le modèle de sa première éducation intellectuelle (Gioanola 1995 : 73-116). Par ses études précoces et ses progrès sensationnels, l’enfant s’est révélé comme la créature privilégiée de son père, le désir de l’un comme le reflet spéculaire du désir de l’autre. Mais pendant que Giacomo se vidait de sa propre existence pour exister dans le miroir de la puissance paternelle, une ombre parricide commençait à s’épaissir derrière les gestes éclatants de l’enfant exemplaire. Elle ne serait jamais qu’une ombre, mais elle est déjà visible dans le document le plus manifeste de l’emprise du père-modèle sur la formation littéraire de Leopardi, la tragédie La virtù indiana (1811). Écrite par Giacomo à l’âge de treize ans, elle est dédiée justement à Monaldo. Dans le français hésitant de la lettre dédicatoire, celui-ci est désigné à la fois comme destinataire, juge et modèle de l’offrande littéraire de l’enfant.4 Mais l’intrigue de la tragédie (où un prince royal, plus ardent que le monarque son père, reprend le trône perdu par celui-ci, laissant aux remords le soin de punir le traître qui a tué le roi) fait émerger les mêmes hésitations et les mêmes fantasmes que Freud lisait dans la tragédie d’Hamlet. Giacomo enfant se rêve en héritier de l’immense pouvoir qu’il accorde au monarque son père, mais une ardeur contrainte se dégage de la soumission filiale ; elle va jusqu’à armer un bras parricide que pourtant le fils ne peut reconnaître comme étant le sien. Voilà donc esquissé le double visage d’une relation au paternel depuis laquelle le fils construira son nom : le Père est un grand miroir sans lequel Giacomo ne pourrait rien savoir de sa propre force, ni même de sa propre existence ; il est aussi une menace mortelle pour cette force et pour cette existence qu’il ne veut en rien laisser lui échapper, comme Giacomo le verra de mieux en mieux dans les années qui suivent. Ainsi, tout en travaillant à se soustraire par la littérature à l’emprise du pouvoir paternel, Leopardi cherchera et fabriquera toujours dans la littérature les signes réconfortants et inquiétants de ce pouvoir.

2. THÉORIES DE L’IMITATION

2.1 Le grec, l’originaire et l’original

Le geste décisif, qui ouvre l’éventail des relations symboliques entre Giacomo et le Père, est celui qu’il accomplit en 1813, se mettant seul à apprendre le grec, après avoir terminé le cursus des études orchestrées par Monaldo d’après le modèle jésuite.5 Le grec reste le passeport pour la carrière de grand prélat à laquelle le désir de Monaldo, qui est aussi le sien, semble le destiner. Mais cette langue ancienne, que son père ignore, lui ouvre l’accès à un espace de liberté, au continent nouveau de la vie, de la nature, d’une littérature qui nomme ce qui était auparavant l’Autre innommable dans l’optique du catholicisme à la fois rationaliste et féodal de Monaldo. La découverte du grec, soustrait à l’influence de son père, permet à Giacomo de poser enfin dans la littérature l’objet de son propre désir, sans pour autant que la littérature cesse d’être en même temps l’objet du désir du Père et le moyen pour lui de l’incarner. Aussi, la poésie des anciens, dans les bras de laquelle Giacomo se jette au moment de sa « conversion littéraire », sera à la fois le lieu du Père et de la fuite du Père : l’Autre prend la forme équivoque de l’Origine,6 aucun paradis exotique ne sera jamais rêvé par Leopardi en dehors de la géographie paternelle de l’antique. Ce paternel puissant et chargé de tensions contradictoires investit lourdement et durablement le champ littéraire que Giacomo se met alors à explorer. Le grec sera la langue de l’Autre, mais d’un Autre configuré comme Origine : en relation de parenté avec la langue italienne, à la fois intraduisible et familier.7 La littérature sera d’abord une entreprise au service de la Patrie (Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica), le pays paternel, mais le pays paternel ne sera rêvé qu’en tant qu’objet littéraire.8 Le respect parfois ostentatoire des lois de la tradition poétique sera le revers d’une insoumission et d’un désir de singularité absolus.9

2.2 L’antiquité romantique

Mais le choix du grec, qui situe la géographie utopique de Leopardi dans une enveloppante cosmographie du Père, donne aussi un destin historique tourmenté à sa position littéraire. Au moment même où il commence à reconstruire avec élan sa propre généalogie symbolique, en lisant et en traduisant les poètes anciens – Anacréon, Moschus, Homère, Virgile, Hésiode –, désirant être comme eux et feignant d’être l’un d’eux,10 dans les journaux italiens éclate la polémique entre classicistes et romantiques.11 Épiphénomène de la même contestation radicale du pouvoir paternel qui se manifeste, sur la grande échelle historique, dans la Révolution française et dans le Romantisme, ce débat avait pour enjeu le positionnement des hommes de lettres italiens face à la rupture de tradition qui leur était proposée par Mme de Staël. On sait que Leopardi, notamment dans le Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), rallie les défenseurs du classicisme avec une netteté apparente que démentent ses arguments ambigus ; mais cette ambiguïté ne tient pas qu’aux incertitudes du vocabulaire de la polémique ou à la perception encore fluctuante qu’on avait alors en Italie (et que Giacomo avait en tout cas) du mouvement romantique. Leopardi lui-même perçoit l’instabilité intrinsèque de sa position, inscrivant résolument son discours dans la défense de la tradition, grand symbole paternel,12 mais avouant par moments la troublante impression d’avoir à lutter contre lui-même (« mi toccherà qualche altra volta di combattere due opinioni contrarie, l’una delle quali s’avvicini alla nostra, e se il lettore non ci guarderà molto per minuto, gli dovrà parere ch’io combatta me medesimo », Leopardi 1997 : 971). Cette rupture de tradition que les romantiques réclament, il la récuse en effet au nom du Père, mais aussi contre ce nom. Il reproche aux romantiques leur mauvais goût, leur méconnaissance puérile des lois de la modération et de la convenientia, en bon défenseur de l’ars poétique classiciste.13 Mais il reproche en même temps à la poésie moderne de vouloir se nourrir de civilisation et non de nature : l’identification avec l’antiquité, avec sa connotation rebelle, vitaliste et antirationaliste, devient là un facteur décisif. Venant menacer son accès à la patrie fantasmée du désir, les romantiques revêtent paradoxalement un rôle antagoniste de type paternel, et choisir résolument une théorie de la poésie sans imitation des anciens s’avère donc impossible pour Giacomo. D’où sa singulière poétique de l’imitation de la nature par l’étude des anciens : c’est d’après l’histoire inscrite dans son imaginaire que Leopardi élabore un modèle conceptuel selon lequel l’accès aux sources enfantines de la vie se fait par identification avec les pères. Il n’y a pas de poésie sans inspiration, mais il n’y a pas d’inspiration sans imitation. Homère, qui plus que quiconque incarne la nature comme corps et comme désir, incarne également le principe paternel de la tradition et de l’Origine. La poésie est feu et étincelle, mais ce feu il faut le ravir aux anciens qui le détiennent.14

L’invitation moderniste des romantiques à liquider l’héritage paternel est en effet d’autant plus troublante pour le jeune Leopardi que l’image du Père venant de son enfance est réellement en train de se noircir et de se perdre en tant que telle. Si dans le Discorso di un italiano Leopardi commence à lier la poésie des anciens à la notion de pathétique, c’est que le Père de l’enfance, détenteur du pouvoir et de la vie, est une image qui s’éloigne de plus en plus de l’horizon sur lequel s’étend la mélancolie. Mais la mélancolie, loin d’effacer définitivement l’image paternelle, amplifie son prestige dans l’éloignement. Plus le présent vide le Père d’autorité et le remplit de menace, plus le passé lointain l’agrandit et l’illumine.

2.3 Vertige

Peu de temps après la rédaction du Discorso et des premières canzoni, début janvier 1819, Leopardi réfléchit dans le Zibaldone (39-40)15 au pouvoir d’inhibition que la tradition exerce sur la création poétique. L’usage des prédécesseurs crée des attentes auxquelles il convient de se plier, à moins d’inventer « una nuova poesia senza nome affatto e che non possa averne dai generi conosciuti », ce qui serait trop risqué, et tout compte fait impossible. La « poesia senza nome » dont Giacomo se prend à rêver est bien moins un programme qu’un vertige : briser les liens de la filiation et renoncer au « nom » est un prix que l’originalité léopardienne ne peut pas vraiment payer. La poésie sans nom, sans père, est un vertige, et Leopardi n’est pas un poète qui vit dans le vertige ;16 aussi, l’originalité absolue ne saurait être pour lui que celle de l’Origine (Zibaldone 40) :

Perciò quando gli esempi erano o scarsi o nulli, Eschilo per es., inventando ora una ora un’altra traged. senza forme senza usi stabiliti, e seguendo la sua natura, variava naturalmente a ogni composizione. Così Omero scrivendo i suoi poemi, vagava liberamente per li campi immaginabili, e sceglieva quello che gli pareva giacchè tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. In questo modo i poeti antichi difficilmente s’imbattevano a non essere originali, o piuttosto erano sempre originali, e s’erano simili era caso. (Leopardi 1991 : 55)

L’exploration horizontale illimitée des possibles imaginaires, voilà l’alternative radicale à la verticalité de la filiation : mais pour les enfants que sont les modernes cet infini sans père est vertigineux, il est la mer dans laquelle on fait naufrage. C’est en rêvant de ce vertige, en épiant l’infini de l’imagination derrière la haie de la tradition que Leopardi parvient à creuser son « nom » dans la littérature, sans jamais sortir d’elle. Même l’expérience poétique du sublime, par laquelle Leopardi courtise le vertige, s’inscrit dans des structures verticalisantes qui parlent également le langage du Père : le ciel léopardien est un ciel de savants et d’astronomes, avant d’être l’infini où l’imagination va chercher ses objets en se perdant.17

2.4 Être et imiter

En effet, jamais la réflexion léopardienne sur la création poétique ne se débarrasse de l’hésitation entre nécessité de la filiation et besoin vital de l’individuation. La seule manière d’être dont Giacomo enfant ait fait l’expérience était d’être comme son père : comment donc pourrait se débarrasser de l’imitation celui qui voit dans l’aptitude à imiter le trait le plus marquant de sa personnalité ?18 Le Zibaldone est traversé par une méditation sur l’imitation, notion qui se croise et parfois se confond avec celle de assuefazione (Zibaldone 1763-1764 et 3590), et définit une faculté cruciale de l’esprit humain, à laquelle Leopardi ramène notamment le génie, le talent et la capacité d’inventer (Zibaldone 1697) :

Parimente si può dire che tutte le assuefazioni, e quindi tutte le cognizioni, e tutte le facoltà umane, non sono altro che imitazione. La memoria non è che un’imitazione della sensazione passata, e le ricordanze successive, imitazioni delle ricordanze passate. La memoria (cioè insomma l’intelletto) è quasi imitatrice di se stessa. Come s’impara se non imitando ? […] La stessa facoltà del pensiero, la stessa facoltà inventiva o perfezionativa in qualunque genere materiale o spirituale, non è che una facoltà d’imitazione, non particolare, ma generale (Leopardi 1991 : 990-991).19

L’un des arguments que Giacomo fait valoir en faveur de cette théorie, est justement celui de l’influence incessante et changeante que ses lectures ont eue sur sa façon d’être écrivain : il se souvient de la rapidité avec laquelle il s’emparait d’un style ou d’une langue (Zibaldone 1364-1365) ; il dit combien sa vocation poétique a été conditionnée par la découverte des poètes grecs, son goût pour l’éloquence par la lecture de Cicéron et son intérêt pour la philosophie par celle de Mme de Staël (Zibaldone1741-1742) ; il n’hésite pas à présenter sa propre originalité comme le résultat d’influences croisées, finissant par adhérer aux propos de la Lettera de Mme de Staël qu’il avait rejetés cinq ans plus tôt (Zibaldone 2185-2186) :

P.e. io finchè non lessi se non autori francesi, l’assuefazione parendo natura, mi pareva che il mio stile naturale fosse quello solo, e che là mi conducesse l’inclinazione. Me ne disingannai, passando a diverse letture, ma anche in queste, e di mese in mese, variando il gusto degli autori ch’io leggeva, variava l’opinione ch’io mi formava circa la mia propria inclinazione naturale. E questo anche in menome e determinatissime cose, appartenenti o alla lingua, o allo stile, o al modo e genere di letteratura. Come avendo letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che dovendo scriver cose liriche, la natura non mi potesse portare a scrivere in altro stile ec. che simile a quello del Petrarca. Tali infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel genere di poesia. I secondi meno simili, perchè da qualche tempo non leggeva più il Petrarca. I terzi dissimili affatto, per essermi formato ad altri modelli, o aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di materia o di facoltà, che si chiama originalità (Originalità quella che si contrae ? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire originale. Che cosa è dunque l’originalità ? facoltà acquisita, come tutte le altre, benchè questo aggiunto di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome). (Leopardi 1991 : 1203)

Le paradoxe vers lequel le raisonnement léopardien pousse ici la reconnaissance du mécanisme mimétique et l’oubli du besoin d’individuation, en disant qu’est original celui qui imite beaucoup, revient à confirmer que la seule originalité possible, au sens propre, est celle de l’originaire, qui ne peut imiter personne. Car le besoin d’individuation reste, et s’exprime par le discrédit qui est jeté sur les imitateurs, objet d’autres remarques du Zibaldone (143, 3463-3464, 3477) : l’originalité de ceux qui n’imitaient pas est un modèle profond qui demeure, toujours agissant, à côté de l’originalité paradoxale de ceux qui vont au bout de l’imitation. Les « singes » dont la faculté imitative est la marque de leur proximité avec l’humain dans une réflexion, figurent dans une autre comme la traditionnelle image caricaturale de la servilité de l’imitation20. Dans deux notes de 1828, où le refus du paradigme mimétique semble plus radical, le discours léopardien garde néanmoins les traces de son hésitation fondamentale (Zibaldone 4358 et 4372-4373) :

L’imitaz. tien sempre molto del servile. Falsiss. idea considerare e definire la poesia p. arte imitativa, metterla colla pittura ec. Il poeta immagina : l’immaginaz. vede il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo : creatore, inventore, non imitatore ; ecco il caratt. essenziale del poeta. (Leopardi 1991 : 2459)

Il poeta non imita la natura : ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’ mi son un che quando Natura parla, ec. vera definiz. del poeta. Così il poeta non è imitatore se non di se stesso (10 Sett. 1828). Quando colla imitaz. egli esce veramente da se med., quella propriam. non è più poesia, facoltà divina ; quella è un’arte umana ; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare ; ed io non intendo di condannarla. (Leopardi 1991 : 2470)

À l’endroit de son plus net rapprochement avec les poétiques romantiques de l’expression et de la création, la théorie léopardienne ne refuse pas l’imitation, mais la laisse à l’arrière plan : elle est un élément secondaire du discours poétique, acceptable dans la mesure où elle reste involontaire,21 tel un tenace résidu prosaïque. Sur elle s’appuie le désir du poète d’être autrui, qui est l’ombre de son désir d’être lui-même. Désir d’être autrui dans l’espace littéraire veut dire essentiellement désir d’être le Père, et ce désir qui avilit le fils ne peut être avoué.

2.5 Perfidie de l’imitateur

Une autre réflexion du Zibaldone laisse par ailleurs apparaître la fine perception que Leopardi a du dénigrement de l’imité produit par l’imitateur, en l’analysant à travers l’effet de l’imitation sur le lecteur (Zibaldone 101) :

La cagione per cui gli uomini di gusto e di sentimento provano una sensazione dolorosa nel leggere p.e. le continuazioni o le imitazioni dove si contraffanno le bellezze gli stili ec. delle opere classiche, (v. quello che dice il Foscolo della continuaz. del Viaggio di Sterne) è che queste in certo modo avviliscono presso noi stessi l’idea di quelle opere, per cui ci eravamo sentiti così affettuosi, e verso cui proviamo una specie di tenerezza. Il vederle così imitate e spesso con poca diversità, e tuttavia in modo ridicolo, ci fa quasi dubitare della ragionevolezza della nostra ammirazione per quei grandi originali, ce la fa quasi parere un’illusione, ci dipinge come facili triviali e comuni quelle doti che ci aveano destato tanto entusiasmo, cosa acerbissima di vedersi quasi in procinto di dover rinunziare all’idolo della nostra fantasia, e rapire in certo modo, e denudare, e avvilire agli occhi nostri l’oggetto del nostro amore e della nostra venerazione ed ammirazione. Perchè in ogni sentimento dolce e sublime entra sempre l’illusione, ch’è il più acerbo dolore il vedersi togliere e svelare. Perciò quelle tali imitazioni ci sarebbero gravi quando anche gareggiassero cogli originali, togliendoci l’inganno di quell’unico e impareggiabile che forma il caro prestigio dell’amore e della maraviglia.22 (Leopardi 1991 : 115)

D’où viendrait cette impression douloureuse qu’a Leopardi de voir les grands imités vaciller sous les coups envieux des imitateurs, si ce n’était une projection des intentions agressives cachées dans ses propres pratiques d’imitation ? Il vaut mieux que l’imitation reste involontaire, puisqu’elle a plus d’un côté inavouable. Et, en effet, en parallèle avec l’hésitation entre acceptation et refus de l’imitation, la théorie et la pratique de Leopardi font apparaître l’oscillation entre l’éloge et la réprobation des auteurs qui ont de l’ascendant sur lui. Une note du Zibaldone datant du 20 septembre 1823 nous offre un bel exemple de cette valse des cotations (3477-3478) :

Alla p. 3156. Si potrebbe aggiungere il nostro Monti, nel quale tutto è immaginazione, e nulla parte ha il sentimento, come n’ha grandissima nel più delle poesie di Lord Byron (se però quel di Lord Byron è ben significato col nome di sentimento). Certo è che il Monti benchè d’immaginazione senz’alcun confronto inferiore a quella di Lord Byron, e benchè non abbia di poetico che l’immaginazione (sì nelle cose sì nello stile), si lascia leggere non senza piacere, né senza effetto poetico, e l’immaginoso in lui comparisce molto più spontaneo e men comandato che in Lord Byron. Ed è forse al contrario, perché Lord Byron è veramente un uomo di caldissima fantasia naturale, e Monti, qualch’egli sia per se stesso, nelle sue composizioni non è che un buono e valente traduttore di Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio ed altri poeti antichi, e imitatore, anzi spesso copista, di Dante, Ariosto e degli altri nostri classici. Sicchè Lord Byron tira le immagini dal suo fondo, e Monti dall’altrui. E se nell’uno ha dell’impoetico lo sforzo che [nel] suo poetare apparisce, nell’altro è veramente impoetico l’imitare e il copiare che però nella sua stessa poesia intrinsecamente non si lascia scorgere. Ond’è che le poesie di Lord Byron sieno meno poetiche, considerate in se stesse, che quelle di Monti. Mentre però questi è infinitamente meno poeta di quello. (Leopardi 1991 : 1816-1817)

Le retournement qui se profile dans cette réflexion n’est pas peu spectaculaire, puisque, en raison justement de sa nature excessivement ‘mimétique’, Vincenzo Monti, vénérable autorité peu d’années auparavant, tombe ici de son piédestal, sur lequel est hissé au contraire Lord Byron, qui dans le Discorso di un italiano était l’emblème de l’inanité poétique des modernes23. Non moins exemplaire est le cas de Pétrarque, dont l’influence sur Leopardi a pu faire l’objet d’appréciations critiques variées,24 notamment en conséquence des avis tantôt enthousiastes tantôt réservés émis par Giacomo.25 L’évolution des idées littéraires de Leopardi peut, certes, être invoquée pour justifier ses changements d’avis au cas par cas. Reste à expliquer, cependant, l’instabilité fondamentale du jugement léopardien vis-à-vis de ces auteurs qui l’ont nourri, que révèlent ces changements continuels.26 D’ailleurs, si le temps écoulé peut servir de justification dans les cas déjà évoqués, que dire lorsque, le 27 novembre 1817, Giacomo écrit un sonnet en hommage à Alfieri, juste après avoir blâmé en son for intérieur la manière trop facile de celui-ci, comme nous l’apprend la prose qui accompagne le sonnet en question ?27 Que dire, encore, quand, quelques mois avant ce même sonnet, dans la préface de la traduction de la Titanomachia di Esiodo, après avoir longuement critiqué la célèbre traduction de Virgile par Annibal Caro, Leopardi termine son discours en désavouant ces réserves :

La coscienza non vuole che io finisca senza aggiugnere qualche cosa. Io disopra ho ardito censurare il Caro ; e di questo ardire ho tanto rimorso che mi bisogna confessarvelo solennemente. Dovreste aver veduto che io spezialissimamente ammiro quello insigne : qui però vo’ dirvi che non pur lo ammiro ma l’amo, e di leggerlo e rileggerlo e volgerlo e rivolgerlo non mi sazio mai : e già se questo non fosse, non altri che io n’avrebbe il danno. Quello che ho detto m’è paruto vero, e per amore del vero ho voluto dirlo. Ma io so quanto siano da riverire i Classici, e la sperienza m’ha insegnato come sovente le cose che in essi paion difetti sieno tutt’altro. Però se ho errato, e se errando o non errando ho usato modi sdicevoli alla piccolezza mia sinceramente e al Caro e agli amici di lui, che degno è d’averne tanti quanti sono gl’Italiani, ne chieggio perdono. (Leopardi 1997 : 446)

Les remords que Giacomo avoue sont bien compréhensibles. Non seulement pour sa propre traduction virgilienne, quelques mois auparavant, il s’est inspiré de ce Caro, dont il censure la traduction de l’Énéide, mais il vient de l’imiter dans des sonnets burlesques (Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio) et il est en train de l’imiter dans cette même prose où il fait état de ses jugements ambivalents.28 Ce n’est donc pas en dépit mais en raison de la révérence qu’il a pour Annibal Caro qu’il s’est emporté contre lui.

Les retournements auxquels nous fait assister Leopardi, montrant sans cesse de l’affection et de la désaffection pour les mêmes auteurs, sont donc moins l’effet d’une trajectoire intellectuelle que la manifestation d’une posture instable, de l’incommodité de l’imitation, qui oblige à sortir de soi et céder au Père son espace vital, alors que la poésie serait justement le lieu pour se saisir de sa propre vie, pour s’asseoir dans son être et dans sa vitalité. Or la poésie de Giacomo est née dans la prose de son identification totale au Père et il est bien trop lucide pour ne pas exprimer le conflit de ses désirs profonds d’identification et d’individuation.29

3. LE PÈRE INIMITABLE

Cependant, le conflit ne raconte pas toute l’histoire de la relation de Leopardi au paternel, nous le savons. Aussi, l’œuvre léopardienne contient-elle également des symboles d’un père intangible, que les tempêtes du goût ne font pas vaciller. Le souverain de ces symboles est Homère, le poète le plus présent dans l’imaginaire et dans la pensée léopardiens. Objet déjà des fantaisies ludiques de Giacomo enfant,30 puis modèle dans son initiation scolaire à l’écriture poétique, Homère devient bientôt la divinité tutélaire qui préside à la langue et à la poésie grecques, à cette image lumineuse d’une humanité des origines qui naît avec la « conversion littéraire ». Poète de la « beauté aérienne » de l’imagination pendant quelques années (grosso modo entre le Discorso di un italiano et le retour du voyage à Rome), il devient surtout, à partir de 1823, le génie antique qui a su capter la force du sentiment à une époque qui ne connaît que l’imagination (Zibaldone. 3157, note b) :31 

Veramente di tutti i poemi epici, il più antico, cioè l’Iliade, è, quanto all’insieme, allo scopo totale e non parziale […] il più sentimentale, anzi il solo sentimentale ; cosa veramente strana a dirsi, e che par contraddittoria ne’ termini, ed è infatti mostruosa ed opposta alla natura de’ progressi e della storia dello spirito umano e degli uomini, e delle differenze de’ tempi, alla natura rispettiva dell’antico e del moderno, e viceversa ec. È anche il poema più Cristiano. Poichè interessa pel nemico, pel misero ec. ec. (Leopardi 1991 : 1658)

Mais changeant de visage au cours des années, Homère ne change pas de rôle : Giacomo a fini par croire moins à l’imagination, par embrasser la mélancolie du sentiment adulte et moderne, mais Homère continue de l’accompagner vers la poésie, de lui tenir la main et de lui montrer comment être grand. Giacomo ne cessera jamais de se reposer sur lui, d’avoir confiance en sa puissance.32 Si l’image splendide d’Homère continue à éclairer Leopardi même quand il rebrousse chemin, c’est qu’elle incarne un paternel intangible, celui qui résiste au dénigrement du père, qui se nourrit même de sa perte. Homère le patriarche, père et prince de la poésie, le premier et le plus grand de tous,33 donne corps à une image archaïque, où la langue est encore à trouver, où l’enfant peut encore s’identifier au Père, se voir grandi en lui et par lui. Homère est lui-même une image poétique, mais aussi une présence fondatrice à laquelle il serait folie de renoncer :

In Omero tutto è vago, tutto è supremamente poetico nella maggior verità e proprietà e nella maggior forza ed estensione del termine ; incominciando dalla persona e storia sua, ch’è tutta involta e seppellita nel mistero, oltre alla somma antichità e lontananza e diversità de’ suoi tempi da’ posteriori e da’ nostri massimam. e sempre maggiore di mano in mano (essendo esso il più antico, non solo scrittore che ci rimanga, ma monumento dell’antichità profana ; la più antica parte dell’antichità superstite), che tanto contribuisce per se stessa a favorire l’immaginazione. Omero stesso è un’idea vaga e conseguentemente poetica. Tanto che si è anche dubitato e si dubita ch’ei non sia stato mai altro veramente che un’idea. (12 Dec. 1823). Il qual dubbio, stoltissimo benchè d’uomini gravissimi, non lo ricordo se non per un segno di questo ch’io dico (12 Dec. 1823). (Leopardi 1991 : 2117-2118)

Homère nous enracine dans l’être autant qu’il nous grandit par l’imagination (Zibaldone 124). Sa poésie est une poésie qu’il faut traduire d’un langage d’avant la langue, la poésie du Père et la poésie de l’enfant, l’un réconcilié avec l’autre, l’un accueilli dans l’autre. C’est à ce rêve, que vient briser la modernité romantique, que Léopardi ne renonce jamais complètement, même quand il se range par nécessité du côté de la modernité. Mais si la céleste autorité du patriarche Homère n’est pas rongée par les va-et-vient des jugements critiques de Leopardi, elle peut être aussi bien agrandie que remise en jeu par les manipulations plus subtiles et profondes de ses pratiques poétiques. La richesse de celles-ci a été explorée par les critiques (G. Lonardi, notamment) du côté des Canti. Mais son aspect le plus macroscopique et le moins étudié est sans doute la série des trois traductions de la Batracomiomachia (1815, 1821-1822, 1826) qui aboutit enfin aux Paralipomeni della Batracomiomachia, le poème héroïcomique qui accompagne les derniers jours de Giacomo. L’auteur de la Batracomiomachia, certes, est un faux Homère, comme Leopardi le reconnaissait dès la préface à sa première traduction, mais peut-on douter que la légende qui disait ce texte homérique ait compté pour lui plus que les raisons qui prouvaient le contraire ? A une époque où la « saveur homérique » pouvait être pour son goût enthousiaste de néophyte un attribut de tout ce qui était grec, elle devait être certainement retrouvée dans un texte qui fait la parodie d’Homère. Plus exactement, la préface à la première traduction montre que l’imagination de Giacomo capte dans les vers parodiques de la Batracomiomachia le profil d’un Homère enfant, qui s’initie à la grande poésie par le jeu.34 Aborder l’inabordable Père par son côté enfantin : voilà donc quel a été sans doute le programme secret qui a inspiré le travail inlassable de Leopardi autour de la Batracomiomachia, en traducteur d’abord, puis en continuateur. Il ne serait pas concevable qu’un poète comme Leopardi accepte dans ses dernières années – alors même qu’il semble avoir désavoué les poétiques mimétiques – d’assumer la tâche d’une continuation, s’il n’avait pas trouvé le moyen de plier l’axe de la filiation. C’est en abordant Homère comme enfant qu’il lance un ultime défi biaisé contre le Père. Il redescend donc dans son enfance, libère la joie puérile de la contrefaçon, pour savourer le plaisir de jouer avec l’enfant Homère, de se jouer de l’enfant Homère. Dans ce jeu si guerrier, il y a néanmoins des lignes qui ne bougent pas, et Leopardi le sait bien. Il a fallu être enfant, encore, pour être comme le Père, dans le Père. Le contenu du poème révèle bien la reconnaissance et même la dénonciation de la supériorité du pouvoir paternel : les crabes, symboles haïssables de la royauté légitime, sont indestructibles, et le seul héroïsme de Rubatocchi, qui se bat pour la libération des rats soumis, consiste à affronter la défaite. Dans La virtù indiana, l’adolescent Leopardi payait le tribut d’une imitation servile de son père pour représenter à travers le triomphe d’un prince et la mort d’un roi ses émotions secrètes de parricide irrésolu. Dans les Paralipomeni, la défaite des rats et l’incertitude de leur revanche mettent en scène la conscience qu’a Leopardi des rapports de force entre Père et enfant. Mais dans l’espace de la littérature, où Leopardi a entre-temps bâti sa propre puissance, il se joue du Père en jouant avec lui.

RÉFÉRENCES BIBLIOGRAPHIQUES

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Notes

1 Elenchi di letture, IV 286, in Leopardi (1997 : 1118). Retour au texte

2 L’origine autobiographique d’une réflexion sur la dépendance filiale était explicite dans la page du Zibaldone du 9 décembre 1826 (4229-4231) où, à la marge de sa lecture des lettres du Comte de Chesterfield à son enfant, Leopardi notait la tendance naturelle des hommes à attribuer des pouvoirs exceptionnels à un être – père, chef ou divinité – à qui recourir dans les malheurs. Il en donnait pour preuve sa propre attitude à l’égard de son père : « Tale sono stato io, anche in età ferma e matura, verso mio padre ; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l’opinione e il giudizio che egli portava della cosa ; nè pù nè meno come s’io fossi incapace di giudicarne ; e vedendolo o veramente o nell’apparenza non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d’animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio di tal rifiugio ». (Leopardi 1991 : 2346) Retour au texte

3 Cf. Gioanola (1995 : 13-14). D’un point de vue historique, selon Paraiso (2005), une régression de l’émancipation filiale caractérise l’âge de la Restauration, avant que l’orientation de l’époque révolutionnaire ne revienne à compter de la fin du XIXe siècle. Retour au texte

4 Monaldo était en effet l’auteur de trois tragédies écrites dans un but pédagogique, conformément à la tradition pédagogique jésuite : cf. Gioanola (1995 : 77-78) ; Leopardi (1999 : vii) ; Genetelli (2006 : 310). Retour au texte

5 Pour l’importance de l’apprentissage du grec cf. Gioanola (1995 : 108) et surtout D’Intino (1999 : xv). Retour au texte

6 La langue grecque a d’ailleurs les attributs du père : toute-puissance, faculté de produire (cf. Zibaldone 2130-2132 et 2210-2212). Retour au texte

7 Pour l’insistance de Leopardi sur l’intraduisibilité du grec dans ses premières traductions cf. D’Intino (1999).  Retour au texte

8 Cf. les lettres à P. Giordani du 21 mars 1817 et à G. Perticari du 12 mars 1819. Retour au texte

9 Document à la fois excentrique et exemplaire, les Annotazioni alle dieci Canzoni stampate a Bologna nel 1824, où la tradition est traitée avec révérence et impertinence à la fois. Retour au texte

10 C’est la fiction des Odae adespote (1816). Le jeune Leopardi traducteur des anciens revendique d’ailleurs l’identification entre le poète et le traducteur : cf. par exemple la préface à la traduction du deuxième livre de l’Enéide (1816) : désir ardent de s’approprier les beautés de Virgile, certitude qu’il faut être un poète pour traduire un poète. Dans le Discorso sopra la Batracomiomachia (1815) et dans la Lettera ai Sigg. Compilatori della Biblioteca Italiana (1816) Giacomo soutient qu’il faut avoir l’âme de l’écrivain qu’on traduit. Voir aussi D’Intino (1999). Retour au texte

11 Cf. pour un bilan récent Fasano (2004 : 233-278). Retour au texte

12 L’incipit du texte est éloquent dans ce sens : « Se alla difesa delle opinioni de’ nostri padri e de’ nostri avi e di tutti i secoli… » (Leopardi 1997 : 968). Cette conviction de s’inscrire dans une tradition et de s’opposer à la séduction facile de nouvelles idées revient souvent dans le texte. Même le caractère patriotique exhibé du discours renvoie à ce choix de positionnement « paternel ». Retour au texte

13 […] « come abbia potuto nascere in questi tempi chi dimenticasse quella verità originaria e fondamentale, che nelle arti belle si richiede la convenienza » (Leopardi 1997 : 989). Retour au texte

14 « Scintilla celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare un sommo poeta, non studio di autori, e disaminamento di gusti stranieri » s’écrie Giacomo lorsqu’il s’agit de s’insurger contre le modernisme romantique qui voudrait couper les poètes de leur racines antiques (Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca Italiana, Leopardi 1997 : 943) Mais pour nul n’est plus vrai que pour lui-même ce qu’il dit du rôle inspirateur des auteurs anciens dans le Discorso di un italiano : « questi trattiamo nella puerizia ; da questi, si può dire, impariamo cosa sieno versi e poesia » (Leopardi 1997 : 977). Retour au texte

15 Pour la chronologie des cent premières pages du Zibaldone cf. Pacella (1987) (et notamment la p. 405 pour ce qui nous concerne). Retour au texte

16 On se rappellera l’autoportrait d’ouverture des Ricordi d’infanzia e di adolescenza (1819): « pieghevolezza dell’ingegno facilità d’imitare, occasione di parlarne sarà la Batrac. Imitata dal Casti. Molto entusiasmo temperato da ugual riflessione e però incapace di splendide pazzie mi pare che formi in genere uno dei più gran tratti del carattere » (Leopardi 1997 : 1100). Retour au texte

17 On se souviendra que l’une des premières offrandes intellectuelles de Giacomo adolescent à son père est la Storia dell’astronomia (1813), où cette science est dite « la più sublime ». Une lecture en partie différente de « l’astronomie » léopardienne est proposée par Lonardi (2005 : 58), qui crédite davantage l’idée d’une rupture de l’ordre paternel (« Tutto conduce, per questo Longino platonizzante, al di là dei limiti del mondo, a un superiore principio trascendente, paterno ; quando invece l’Infinito è semmai il primo grande tentativo di Leopardi di darsi per così dire origine proprio cercandosi radicalmente fuori di un ordine paterno »). Retour au texte

18 Cf. l’incipit des Ricordi d’infanzia cité à la note 16. Retour au texte

19 Cf. aussi Zibaldone. 1647, 1661-1663, 3941. Sur les relations entre la théorie de l’assuefazione et la gnoséologie sensualiste, cf. Sansone (1964 : 138-139). Retour au texte

20 Cf. respectivement Zibaldone 1365 « Il più ingegnoso degli animali, e più simile all’uomo, la scimia, è insigne per la sua facoltà e tendenza imitativa » (Leopardi 1991 : 827) et 3464 « Altrimenti l’imitazione è da scimmie, e una letteratura fondata su di essa è indegna di questo nome » (Leopardi 1991 : 1809). Retour au texte

21 Sur la place de l’expression dans les poétiques romantiques, voir Abrams (1953). Retour au texte

22 Des considérations similaires, dans une formulation moins générale, se trouvent à l’autre bout du Zibaldone, à la date du 20 avril 1829 (4491-4492), preuve s’il en était besoin que la trajectoire de la pensée Léopardienne est loin de marquer un progrès linéaire. Retour au texte

23 Sur Leopardi et Monti cf. Vanden Berghe (2001) (qui signale aussi la bibliographie précédente) ; sur Leopardi et Byron je me permets de renvoyer à mon intervention au Colloque International Ferments d’Ailleurs. 1750-1850 (Grenoble, 23 novembre 2006), dont les actes sont en attente de parution. Retour au texte

24 Blasucci 2006, après un examen équilibré des déclarations et des pratiques léopardiennes, se prononce maintenant en faveur de la ‘fidélité’ de Leopardi à Pétrarque. Retour au texte

25 Cf. au moins Zibaldone 24 ; 112-113 ; 2184-2185 ; et la lettre à Fortunato Stella du13 septembre 1826. Retour au texte

26 Un cas de figure différent mais non divergent est le silence dont fait l’objet un auteur comme Foscolo (pourtant bien lu et présent dans la ‘mémoire’ des textes léopardiens), silence qui peut donc être interprété comme un signe de rivalité inconsciente vers le seul poète contemporain « dalla cui originalità Leopardi potesse sentirsi minacciato » (Lonardi 2005 : 31). Retour au texte

27 « Primo sonetto composto tutto la notte avanti il 27 Novembre 1817, stando in letto, prima di addormentarmi, avendo poche ore avanti finito di leggere la vita dell’Alfieri, e pochi minuti prima, stando pure in letto, biasimata la sua facilità di rimare, e detto fra me che dalla mia penna non uscirebbe mai sonetto ; venutomi poi veramente prima il desiderio e proponimento di visitare il sepolcro dell’Alfieri, e dopo il pensiero che probabilmente non potrei » (Leopardi 1997 : 302). Sur Leopardi et Alfieri, cf. le tout récent Genetelli (2006). Retour au texte

28 D’après les arguments plausibles de Marti (1998), les Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio, où Leopardi suit assez de près le modèle des Mattaccini (faisant partie de l’Apologia) de Annibal Caro, devraient remonter à une période comprise entre la mi-mars et la mi-mai 1817, alors que la traduction de la Titanomachia est publiée avec sa préface début juin de la même année. Etant donné cette chronologie, le caractère archaïsant et florentin de la prose de la préface peut être vraisemblablement ramené au modèle de Caro, d’autant plus que dans une lettre à Giordani du 30 avril de la même année, Giacomo évoque précisément la difficulté d’émuler la prose de Caro. Retour au texte

29 Fût-ce par des voies détournées, comme dans Zibaldone 64, où il commence par nier l’influence de la littérature sur ses sentiments, mais finit par reconnaître que, si elle ne les crée pas, du moins elle les facilite. Retour au texte

30 Cf. les « batailles homériques » évoquées dans les Ricordi d’infanzia e di adolescenza (Leopardi 1997 : 1105). Retour au texte

31 La reconnaissance du « sentimental » homérique, si elle prend de l’ampleur à partir de 1823, est néanmoins très précoce, puisque déjà dans le Discorso di un italiano Leopardi vantait le « pathétique » naturel chez Homère (et les anciens) en l’opposant au « pathétique » affecté des romantiques. Retour au texte

32 La continuité de cet accompagnement a été explorée avec finesse dans les études très riches et fondatrices de Gilberto Lonardi (Lonardi 1969 et 2005). Retour au texte

33 Cf. notamment Zibaldone 1028 ; 1137 ; 1380 ; 1650. Retour au texte

34 Cf. le Discorso sopra la Batracomiomachia : « Fra quelli che hanno scritto nelle lingue volgari, moltissimi hanno riguardato quel poema come un parto veramente di Omero, e il Lavagnoli in una prefazione premessa alla Batracomiomachia da lui tradotta, ha sostenuta con tutte le sue forze questa opinione. « Non potrebbe esser questo per avventura », dic’egli parlando di Omero, « un primo parto della sua mente ? un esperimento che volle egli fare di sé medesimo in mira delle magiori cose che divisava di scrivere ? » […] e Pope dice che un grande autore può qualche volta ricrearsi col comporre uno scritto giocoso, che generalmente gli spiriti più sublimi non sono nemici dello scherzo, e che il talento per la burla accompagna d’ordinario una bella immaginazione, ed è nei grandi ingegni, come sono spesso le vene di mercurio nelle miniere d’oro » (Leopardi 1997 : 395). Retour au texte

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Référence électronique

Giuseppe Sangirardi, « Leopardi : Pères et patriarches », Filiations [En ligne], 1 | 2010, publié le 23 novembre 2010 et consulté le 29 mars 2024. DOI : 10.58335/filiations.80. URL : http://preo.u-bourgogne.fr/filiations/index.php?id=80

Auteur

Giuseppe Sangirardi

Professeur d’italien, Centre Interlangues TIL (EA 4182), Université de Bourgogne, UFR Langues & Communication, 2 bd Gabriel, F-21000 Dijon – giuseppe.sangirardi [at] u-bourgogne.fr

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